Antonio Oleari

Writer & Photographer
    
Location: Milano
Nationality: Italian
Biography: Antonio Oleari  is a writer and photographer based in Milan. He studied literature and he was a radio speaker and music journalist. For years he has been involved in the international music scene: he has published essays, biographies and... MORE
Private Story
Un funerale africano
Copyright Antonio Oleari 2024
Updated Dec 2018
Togo, luglio 2018

Ho ancora sulla scrivania l’invito al funerale di Apélété Efio detto Gayaume. E’ un cartoncino stampato a colori che qualcuno ci ha messo in mano appena abbiamo trovato posto sotto il grande tendone. L’uomo era morto tre mesi prima, il 27 aprile, all’età di 70 anni. Nella foto di copertina lo rivedo seduto in poltrona con una tunica a strisce viola. Sotto il suo volto, alcuni versetti della lettera a Timoteo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno”. In questo angolo d’Africa la Bibbia è il serbatoio di sapienza e speranza con cui convivono i primordiali culti animisti woodoo.  

All’interno del libretto rileggo il programma: tre giorni di lutto tra veglie, balli e canti. Un’intera facciata è occupata dall’elenco dei familiari convocati per le esequie. I primi nomi, scritti più in grande, sono quelli dei 9 figli di Apélété. Di ognuno è precisato il mestiere e la provenienza, così sappiamo che Koffi fa il panettiere a Lomé e Yaovi il carpentiere in Ghana. Scritti più in piccolo ci sono nomi e cognomi di tutti gli altri parenti, anche i più lontani: non li saprei riconoscere, ma nella calca ci devono certamente essere Agnigbangnifio e sua moglie (lavandai in Nigeria), Yao Amegan Abalo (contabile in Gabon) con i fratelli e le sorelle, il sacerdote woodoo Lili Fiossawo e molti altri. Per ognuno di loro nelle ultime settimane è stato cucito un abito utilizzando la stessa stoffa a fantasie rosa e verdi: pantaloni e camicia maniche corte per gli uomini e abito lungo e foulard per le donne. In questo modo, nella baraonda, potremo sempre riconoscerli e sapere che c’è un motivo se sono quelli che piangono di più.

Il presentatore, confuso tra la folla, li ha elencati uno per uno urlando i loro nomi dentro a un vecchio microfono mentre poco lontano, dietro il mixer, un improvvisato tecnico del suono muoveva manopole circondato da cavi della corrente scoperti. Sentendosi chiamare, a turno si sono alzati e hanno ballato freneticamente intorno alla bara, un cilindro di legno bianco che – difficile crederci – è stato decorato a pois rossi, gialli e blu con una bomboletta spray. E’ al centro del tendone, in posizione obliqua perché sia meglio visibile a tutti. Poco lontano, in un angolo, un gruppo di uomini suona vecchi strumenti tribali senza mai fermarsi: sono a petto nudo, le loro mani si muovono ossessivamente, qualcuno è evidentemente ubriaco.

Poi, una volta tornato il silenzio, prendono avvio lunghi monologhi al microfono: nonostante sia impossibile capire anche solo una parola della lingua locale, l’ewe, ho la sensazione che stiano narrando la vita del defunto, le sue buone azioni, il coraggio esemplare, la sua generosità. Immerso in questa calma momentanea guardo il feretro e provo a immaginare, ripercorrendoli all’indietro, i tre mesi trascorsi dalla morte di Apélété. La sua morte ha convissuto a lungo con la vita, l’ha abbracciata e in qualche modo abitata. Attorno alla sua bara, per tre mesi, si è mangiato e cucinato, qualcuno ha pianto o fatto l’amore, si è discusso di soldi e di raccolto. L’anziano capo famiglia ha osservato tutto da vicino come se nulla fosse realmente cambiato, come se il dolore del lutto fosse stato congelato per tre mesi e dimenticato. Per questo ora lo vedo riscoppiare con così tanta intensità: figlie e figli si asciugano le lacrime e il sudore con fazzoletti larghi e colorati, toccano la bara, si abbracciano.

Sollevato dai parenti, ora il feretro fluttua sopra decine di teste ed esce da sotto il tendone. Si è formato un corteo che alla testa vede una chiassosissima banda di trombe e tamburi, oltre a due donne che reggono fotografie in posa di Apélété finemente incorniciate. Così, per decine di minuti, il morto viene portato in giro per il villaggio seguito dall’intera comunità. In alcuni punti precisi (un albero sacro, la casa di qualcuno, una pietra nel terreno) il corteo si ferma, la bara viene sollevata, i canti si fanno più intensi. La polvere sollevata dai passi si incolla alle fronti e ai capelli, il sole scotta e asciuga le bocche. Sembra che si debba andare avanti così ancora per ore e invece, svoltato l’angolo, ecco la fossa in cui la bara verrà calata. I bambini si sporgono per vedere da vicino, adesso il feretro giace a un paio di metri di profondità ma non viene ricoperto di terra: un lenzuolo colorato, fermato agli angoli da quattro pietre, lo nasconde alla vista. La banda suona ancora per qualche minuto, dentro le trombe i musicisti gettano l’ultimo fiato rimasto, una vecchia ubriaca mi si avvicina e fa il gesto di portare alla bocca un bicchierino di vetro e una boccetta verde piena di un liquido trasparente, finge di versare e di bere, così, in continuazione. Poi si dirige verso la fossa e balla sgraziatamente davanti al telo. Chi è? Cosa vogliono significare i suoi gesti? Per un attimo temo che possa perdere l’equilibrio e finire dritta e distesa sopra la bara. Invece non succede, qualcuno la guarda e ride allontanandosi, i rumori svaniscono e le donne sono già nei cortili che accendono il fuoco. 

In un attimo la vita del villaggio è tornata quella di sempre: qualche uomo si intrufola nei campi di granoturco a fare i bisogni, dai pozzi provengono i tonfi dei secchi che cadono sulla superficie dell’acqua. Sono stordito: non ho mai visto tanta vita insieme alla morte, tanto rumore unirsi al silenzio del trapasso. Seduto sotto a un grande albero di mango, mentre guardo una ragazzina cieca vendere ai passanti alcuni biscotti, ripenso a quel telo steso sopra la buca e al cumulo di terra rossa che aspetta ancora la pala di qualcuno. Sorrido. Non è ancora finita. Sembra impossibile, ma non è ancora finita.
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