Antonio Oleari

Writer & Photographer
    
Location: Milano
Nationality: Italian
Biography: Antonio Oleari  is a writer and photographer based in Milan. He studied literature and he was a radio speaker and music journalist. For years he has been involved in the international music scene: he has published essays, biographies and... MORE
Private Story
Svetla
Copyright Antonio Oleari 2024
Updated Nov 2017
Topics Abandonment, Adolescence, Children, Editorial, Family, Friends + Family, Parenting & Family, Relationships
Pubblicato per la prima volta su www.corriere.it il 15/06/2017
(illustrazione di Annalisa Beghelli)

In Italia le associazioni che si occupano di bambini provenienti dall'Est Europa sono decine; nella maggior parte dei casi si impegnano in adozioni a distanza, adozioni vere e proprie o affidi temporanei. Nel caso dell'Ucraina, quest'ultima soluzione iniziò a diffondersi nei primi anni Novanta, dopo il disastro di Chernobyl, quando ai bambini dell'area coinvolta si offriva la possibilità di passare in Italia qualche mese, di solito in estate.

«La permanenza in un ambiente non contaminato e un'alimentazione sana ed equilibrata consentono loro di abbassare di circa il 60%, per un periodo di sei mesi, il tasso di cesio e di stronzio assorbito dall'aria e dagli alimenti, ritardando l'insorgere di patologie gravi quali i tumori alla tiroide e le leucemie». E' quello che leggo sul sito dell'associazione a cui anni fa i miei genitori si erano rivolti per l'affido di Svetlana, detta Svetla.

La prima cosa a cui dovetti abituarmi quando arrivò da noi fu il suo modo brusco di parlare e di chiedere le cose. Mi pareva le pretendesse. I miei genitori la riempivano di attenzioni e regali e anche questo mi indisponeva. Non avevo vent'anni, e da adulto quale mi credevo dicevo loro che non era giusto fare così perché poi quella bambina sarebbe tornata a casa dove non aveva nulla, e avrebbe sofferto ancora di più per la sua condizione. All'oratorio estivo Svetla dettava legge sugli altri bambini, a tavola ci costringeva a infinite sessioni di cartoni animati, prima di andare a dormire si ingolfava di gelati e io mi interrogavo su quel leggero vuoto di senso che distingue il fare del bene dalla beneficenza.

Venne per qualche estate, di mezzo ci fu anche un Natale, poi non tornò. La ragazzina si faceva grande e i miei genitori temevano di non riuscire più a gestirla. Mi ci ero affezionato, nel frattempo.
Ma poi iniziarono le telefonate sempre più frequenti con la richiesta di soldi. L'imperativo era ogni volta lo stesso: «Tu mandare soldi di me». E mia mamma spediva.
Con le poche parole di italiano che le erano rimaste, Svetla raccontava di una nonna malata da accudire e di una madre che partoriva sorelline una dopo l'altra, del padre sempre ubriaco e molesto.

Nell'ultimo periodo, poi, le grandi novità: un soldato la corteggia, si sposano, entrambi sono senza lavoro, nel giro di un anno e mezzo nascono due bambini. Lei ha appena vent'anni.

Non so per quale preciso motivo mi ritrovo la mattina di Pasqua in un villaggio nel nord dell'Ucraina sotto un cielo grigio e pesante come l'acciaio.
C'è di mezzo qualcosa che ha a che fare con il legame che sento con il passato della mia famiglia e l'attrattiva verso chi ha sfiorato la mia vita ed è ora lontano.
Quando le ho detto che mi sarebbe piaciuto andare a trovarla, Svetla è rimasta come turbata: fino all'ultimo mi ha lasciato in sospeso, tenendomi nascosto persino il nome del suo villaggio.
Nei caffè di Kiev da dove cercavo di contattarla ho anche pensato che stesse prendendo tempo e che molte delle cose che ci aveva raccontato negli ultimi anni fossero delle bugie confezionate apposta per continuare a ricevere i pochi euro di mia madre. Nicchiava, alcune volte non rispondeva nemmeno al telefono.

Poi finalmente l'invito è arrivato. Sul cancello di casa, in ciabatte, c'erano lei, suo marito e i loro due bambini. Dentro ho stretto la mano a sua madre, una donna sulla quarantina che dimostrava almeno venti anni di più. Prima che mi abbracciasse e sentissi sulle guance la lana del suo maglione le ho visto gli occhi rossi e una lacrima spuntare. Mi ha presentato il suo compagno, un uomo alto e magro dalla parlata biascicata.

Quando Svetla mi ha chiesto di scusarlo, ho capito che era ubriaco e che lei si vergognava di lui. Poi mi sono guardato attorno: quella casa di legno che dalla strada mi era parsa modesta ma vivibile consisteva di due sole stanze spoglie con i muri anneriti dall'umidità, quattro letti, una stufa, un tavolo e un armadio. Nient'altro. Sedute su un letto mi sorridevano timidissime le tre sorelle di Svetla: la più piccola, Sophiika, le si è avvicinata e si è fatta dare in braccio quello che a tutti gli effetti era suo nipote. Lei quattro anni, lui quasi uno. Pochi minuti e sarebbe arrivata anche la sorella maggiore di Svetla, una ragazza invecchiata presto, con un bimbo di due anni e il sorriso compromesso dall'assenza di un incisivo. E' a quel punto che ho stappato la bottiglia di vino bianco che avevo con me.

E così era tutto vero. Forse persino peggio di come mi era stato raccontato. Per due anni, dopo il matrimonio, Svetla ha vissuto in casa dei genitori di Ola, suo marito, mentre lui era a militare. Ora che è tornato vivono ancora là ma non si respira una bella aria. Non ci sono soldi e nemmeno lavoro. Adesso capivo perché Svetla aveva indugiato così a lungo prima di confermare il nostro incontro: doveva trovare un posto adatto, indecisa tra la casa dei suoceri o quella di sua madre dove probabilmente avrei conosciuto l'uomo che la picchiava. Ha scelto la seconda e le cose, in parte, sono andate come temeva: durante il pranzo l'uomo, ubriaco e a piedi nudi, ci raggiungeva a tavola sbraitando e barcollando. Allora le bimbe diventavano rosse in volto, Svetla si alzava e lo spingeva a forza sul letto da dove lui andava avanti a chiamarla e a dirle cose che non capivo. Questo è successo almeno una dozzina di volte.

Avrei altre cose da dire su quel pranzo pasquale. Potrei raccontare il mio stupore nel vedere tra le mani di Svetla una volpe di peluche color rame che le avevo comprato all'Ikea un Natale di dieci anni prima. O precisare con quanta intimità ho sentito pronunciare da quelle persone il nome dei miei familiari. Ciò che ricordo meglio però è che prima di andarmene, mentre facevo pipì nella latrina di legno tappandomi naso e bocca con la mano, mi chiedevo come avessi potuto anche solo lontanamente dubitare dei racconti di Svetla.

Bruciavo dal senso di colpa per averla obbligata a mostrarmi una realtà che avrebbe preferito tenere nascosta e di cui, era evidente, si vergognava. Nel chiederle dove fosse la toilette so di averla costretta a ripensare alla distanza siderale che c'era tra quel buco pieno di merda e carta di giornale e il bagno tutto per sé che aveva a casa dei miei genitori.

Nonostante tutto questo, era lei che durante la mattinata mi aveva chiesto scusa per qualsiasi cosa. Lo ha fatto anche per le enormi buche che tempestavano la strada dopo che mi sono offerto di riportare lei, il marito e i bimbi a casa dei suoceri. Temeva potesse succedere qualcosa alla mia auto presa a noleggio. Quando siamo arrivati davanti alla staccionata della casa, Daniel, il piccolo, piangeva perché aveva fame.

Svetla mi ha stretto forte, poi mi ha salutato con tutta la fermezza di una madre. «Scusa tu» le ho detto quando era già voltata.
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