Antonio Oleari

Writer & Photographer
    
Location: Milano
Nationality: Italian
Biography: Antonio Oleari  is a writer and photographer based in Milan. He studied literature and he was a radio speaker and music journalist. For years he has been involved in the international music scene: he has published essays, biographies and... MORE
Public Story
Mia madre al Bardo
Copyright Antonio Oleari 2024
Date of Work Mar 2017 - Mar 2017
Updated Nov 2017
Topics Documentary, Family, Islam, Mixed Medium, Photojournalism, Terrorism, War
Pubblicato per la prima volta su www.corriere.it il 24/03/2017
Illustrazione di Salvatore Liberti

Sono passati due anni e altre violenze, orrori, risposte tentate.

Ognuno di noi, nel frattempo, ha composto nella propria memoria uno schedario della paura fatto di ricordi e immagini. I posti dove eravamo, le notizie come le abbiamo sentite la prima volta. Senza rendercene conto, in questo poco felice catalogo, abbiamo messo alcune cartelle più in evidenza e altre più isolate verso il fondo. Si ordinano nomi di città, date, frammenti di filmati: solo noi ne conosciamo la successione e la gerarchia.

Il 18 marzo 2015, intorno a mezzogiorno, quattro terroristi armati di kalashnikov, bombe a mano e cinture esplosive tentano di fare irruzione all'interno del Parlamento tunisino dove si discute, tragica ironia della sorte, una legge anti-terrorismo.

Respinti dalle forze di polizia, si dirigono verso il parcheggio del vicino Museo del Bardo, l'attrazione più visitata del Paese. Qui aprono il fuoco contro un autobus di stranieri appena scesi da una nave da crociera italiana, poi si barricano all'interno del museo prendendo in ostaggio altri turisti di varia nazionalità. Due dei quattro attentatori moriranno un paio d'ore dopo in seguito all'intervento delle teste di cuoio tunisine. Bilancio finale di quella tragedia: 22 morti e 45 feriti.

Seppi da Facebook che tra i 4 morti italiani c'era anche una mia compaesana: erano passate ormai ore dai fatti di Tunisi e un amico, non ricordo chi, condivideva sulla propria bacheca la notizia di un quotidiano locale che annunciava la morte di Giuseppina Biella.

È strano dirlo, ma quando succedono queste cose, per un attimo soltanto, allo sbalordimento iniziale si unisce una specie di ebbrezza. Come se, pur luttuoso, quell'evento spezzasse la monotonia: se ne sarebbe parlato a lungo, ci si sarebbe indignati e mobilitati, avremmo avuto attenzioni da parte della nazione.

La storia collettiva (entro cui un attentato terroristico si pone contestualmente al suo avvenire) si unisce alla piccola, banale storia nostrana. Pochi minuti dopo il gruppo WhatsApp degli amici del Fantacalcio mi avvisava, tra deboli smentite e crudeli conferme, che quella donna era la madre di Silvio Senzani.

Avevo quindici o sedici anni e al venerdì sera dicevo ai miei genitori che andavo all'oratorio mentre invece scappavo in qualche locale dei dintorni per sentir suonare il suo gruppo rock.

La cosa che ricordo di più è la sua posa immobile, con una mano stretta al microfono e l'altra a sfiorare l'asta, le ginocchia leggermente flesse, la testa piegata di lato. Silvio, classe "˜68, intonava Billy Idol o Ruggeri senza infiorettature: lo guardavo, bevevo le prime birre della mia adolescenza (ho diciassette anni meno di lui) e pensavo al suo spiccato senso pratico, una specie di concretezza che nascondeva autenticità.

Figlio di salumieri, la vita lo aveva già messo alla prova con quel tumore che in due mesi e mezzo gli aveva portato via la sorella Sabrina. Era il 1999 e lei aveva appena 29 anni.

Una sera mi dissero che non potevo mancare all'ultimo concerto dei Q.K. (così si chiamavano): Silvio se ne andava in Kenya a gestire insieme allo zio una specie di albergo e ci dava l'addio cantando. Da lì non l'avrei rivisto per anni, nemmeno dopo il suo ritorno in Italia per farsi operare a un brutto male.

In Africa non sarebbe più tornato, in compenso aveva trovato lavoro come cameriere e studiava per diventare operatore sanitario. È questo che fa ancora oggi: sette ore al giorno in un ospedale brianzolo, poi a casa da Susanna e dai due figli adolescenti di lei.

Due anni fa " e sembrano molti di più " il Bardo.

Non gli ho mai scritto né mi sono mai fatto vivo. Finché ci ha pensato lui, qualche giorno fa.

«Sei mai stato in Giordania?», mi scrive. Â«Non è che mi suggerisci qualche itinerario?».

No, Silvio, non ci sono mai stato; però facciamoci una birra, ti va?

Quando me lo trovo davanti, Silvio Senzani è come me lo ricordo, solo i capelli si sono ingrigiti e al posto del chiodo c'è un normale piumino di stagione. Ma come la Giordania, Silvio: dopo quello che è successo? Sto già consultando l'archivio, torno a mettere insieme date e luoghi: nemmeno tre mesi fa, attacco al castello di Karak, 7 morti.

Faccio quello che facevo prima, mi confessa con tranquillità. Viaggiare è sempre stata una passione di famiglia. Dopo la morte di Sabrina i suoi genitori hanno chiuso il negozio e si sono messi a viaggiare, soprattutto crociere: sul Volga, tra i fiordi norvegesi, lungo il Nilo.

Quella crociera in Tunisia invece l'avevano già rinviata due volte per via delle operazioni all'anca di Sergio, il padre di Silvio. Erano al terzo tentativo e finalmente sono partiti. Ma già pensavano al cinquantesimo di matrimonio, l'anno dopo: speravano di potersi imbarcare un mese intero e fare il giro del mondo.

"Silvio, adesso come facciamo senza la mamma?". Ero appena uscito dal lavoro e mio padre mi telefona singhiozzando ripetendo questa frase. "Hanno ammazzato la mamma". Poi qualcuno deve avergli detto di mettere giù. Non fumavo da mesi, ma la prima cosa che ho fatto è stata entrare in un tabaccaio e comprare un pacchetto. A quel punto sono tornato a casa, ho accesso la Tv e ho assistito inebetito a quell'accavallarsi di notizie.

Mi chiedo cosa voglia dire ricevere una telefonata così, quale genere di solchi possa lasciarti per il resto della vita. Eppure Silvio parlando è imperturbabile, sceglie la patatina più grossa tra quelle rimaste e poi la manda giù con un sorso di birra. È calmo e deciso.

Provo a pensarlo tremante e irrequieto durante le prime telefonate alla Farnesina in cerca di notizie, ma non ci riesco.

Immagino invece la sua camminata nei corridoi fatiscenti dell'ospedale di Tunisi, con a fianco Susanna, in mezzo a quel cattivo odore di formaldeide.

Mia mamma stava dentro a un sacco nero poggiato sopra una barella di metallo. A fianco c'erano il suo anello, la collana, gli occhiali e la macchina fotografica. Non abbiamo avuto bisogno di altro per riconoscerla. Il medico legale ci ha tranquillizzati sul fatto che fosse morta all'istante, uno dei quattro colpi " quello fatale " l'ha raggiunta al collo ed è uscito dalla testa.

È stata una sventagliata di mitra. Uno dei terroristi, inseguito dai poliziotti, ha visto aprirsi le porte dell'autobus e ha fatto fuoco. Pinuccia (così la chiamavano tutti) scendeva in quel momento dalla porta centrale, si è accasciata sulla scaletta ed è rimasta lì, come seduta.

Mio padre invece era seduto davanti per i suoi problemi all'anca. Non riusciva ad alzare il bracciolo del sedile per cui ha lasciato passare il signor Caldara. Poi sono arrivati gli spari: quell'uomo gli ha fatto da scudo e gli è crollato addosso morto.

Tutto il resto ha il ritmo lento e i colori grigi di una ritirata: il C-130 militare con le quattro bare e i parenti ammutoliti, l'atterraggio a Ciampino, poche parole sussurrate da Silvio nell'orecchio di Matteo Renzi («Sappi che siamo in guerra, fai qualcosa»), la carovana di auto verso il Gemelli, l'autopsia, la ripartenza per l'aeroporto di Torino.

Intanto i giornalisti ci assediavano casa, citofonavano ai vicini, chiedevano a chiunque: è stata una fortuna per noi arrivare a casa due giorni dopo, la maggior parte a quel punto se n'era andata.

Ora rivedo la gente del mio paese che si incolonna davanti alla camera ardente: a quante di queste vecchiette avranno dovuto spiegare dov'è la Tunisia, chi sono i terroristi, cosa vogliono da noi? Quanti ragazzi invece si saranno lasciati andare a facili soluzioni su come eliminare questa oscura minaccia? Quanti avranno preferito il silenzio?

I loro sono gli stessi volti che rivedo pochi giorni dopo al funerale, tutti in fila dietro al parrocco, al sindaco e alle rappresentanze dello Stato. Piove, è un fine marzo freddo.

Mamma è ancora nel colombario di fianco a mia sorella, lì dove l'abbiamo lasciata quel giorno. Non possiamo cremarla come avrebbe voluto perché ci sono tuttora aperte due inchieste, una in Italia e una in Tunisia.

Chissà cosa c'è ancora da scoprire. Come se il destino non avesse già dato il peggio di sé nella storia di Pinuccia e di suo marito Sergio. Una vicenda figlia sì dell'ineluttabile, ma non completamente priva di rimorsi.

Alla Costa Crociere non perdono solo una cosa: quella gita al Bardo non andava fatta. Che la zona fosse pericolosa l'aveva capito una professoressa di un liceo di Alessandria, imbarcata con i suoi alunni su una nave della MSC. Sapeva che quel giorno in parlamento si discutevano leggi anti-terrorismo, e ha preferito mandare i ragazzi in visita a Cartagine pur di evitare il Bardo.

Il tono di Silvio è per la prima volta più appuntito, le frasi si fanno brevi: Volevo portarli in tribunale, avrei vinto, mio papà non ha voluto.

Sergio Senzani compie quest'anno 80 primavere e declina dolcemente ogni invito del figlio a fare un nuovo viaggio. Va spesso in Liguria, dove ha una piccola casa, oppure resta a Meda, nel cuore della Brianza, dove canta nel coro della parrocchia e frequenta l'Inter Club.

Silvio mi dice che i rapporti con i parenti delle altre vittime invece sono quasi nulli ma esiste un'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo alla quale sono iscritti: Grazie a loro, se non cambiano la legge, potrò andare prima in pensione.

Cosa farai, gli chiedo.

Viaggerò. Mi piacerebbe visitare il Bardo, un giorno, all'ingresso c'è un mosaico con il volto di mia mamma. L'hanno inaugurato un anno fa.

I silenzi si allungano e i bicchieri si svuotano. Quando fuori dal pub saluto Silvio e lo vedo incamminarsi verso la macchina penso che non è vero che la vita va sempre avanti. Per alcuni la vita va oltre, cammina sopra a se stessa e dà forma a uno scudo contro il futuro. È un po' diverso, insomma.

Infine, una volta a casa, mi accorgo di non avergli fatto l'unica domanda, forse la più banale, che mi ero preparato ancora prima di incontrarlo. Decido di scrivergli una mail telegrafica: Silvio, mi sono dimenticato di chiederti una cosa, se ti dico la parola «perdono», tu cosa mi dici?

Sono passati venticinque giorni e la risposta non è ancora arrivata.
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