Antonio Oleari

Writer & Photographer
    
Location: Milano
Nationality: Italian
Biography: Antonio Oleari  is a writer and photographer based in Milan. He studied literature and he was a radio speaker and music journalist. For years he has been involved in the international music scene: he has published essays, biographies and... MORE
Public Story
La medicina dell'asfalto
Copyright Antonio Oleari 2024
Date of Work May 2018 - May 2018
Updated May 2018
Topics Conceptual, Documentary, Family, Lifestyle, Mixed Medium, Travel, Vacation, Youth

Pubblicato per la prima volta su www.corriere.it il 18/05/2018
Illustrazione di Eleonora Arosio

Parto.
Sul portapacchi posteriore una sacca di tela zeppa di vestiti, su quello davanti una borsa più piccola con la cassetta degli attrezzi, l'olio, le cartine stradali e il telo per coprire il mezzo. Dietro di me, sulla sella, il sacco a pelo e il materassino arrotolato. Tra le gambe la tanica da cinque litri già piena di miscela. Le ultime stelle alle cinque del mattino, in una notte leggermente umida.

Che colore hanno le partenze?
I cieli di chi parte?


Cieli lucidi come gli occhi stanchi che non si sono chiusi fino all'ultimo, spalancati per ore a contemplare il buio di certi pensieri, con il caldo, le zanzare e un formicolio alle ossa. Era così anche da bambino, la notte prima di partire: i piedi che sotto il lenzuolo sfregavano nervosi, la fatica a prendere sonno nel tentativo di dare forma ai luoghi, voce agli sconosciuti. Tutta la forza che si esaurirà nel viaggio, forse, ha il suo serbatoio in quella sottile trepidazione che le paure (volute e cercate) hanno in comune con i godimenti.

Mia madre - la più preoccupata è lei - non si alza, rimane a letto in un sonno pigro. L'ombra di mio padre invece appare nel corridoio, in mutande larghe e canottiera: approfitta dell'alzataccia per fare a pezzi l'avanzo di bistecca che finirà al gatto per colazione. Lascialo andare, ha ripetuto alla moglie a pranzo e cena, ogni giorno tutti i giorni, durante l'ultimo mese. Cosa deve succedere? Se avrà bisogno, chiamerà"¦ Adesso non ha nessuna raccomandazione per me, nessun apparente riguardo. Mi ha lasciato solo qualche banconota sul mobiletto vicino alla porta, è la sua maniera di mostrarsi premuroso. Piantato sulla soglia di casa mi segue con gli occhi mentre stringo elastici attorno ai bagagli. Poi si allontana, e per fingersi indaffarato dà da bere alle piante. Buon viaggio, mi dice da lontano.

E a quelle due parole così scontate, per un attimo, vorrei rispondere piangendo. Dirgli che forse lascio perdere, che sono pronto a cambiare idea e a tornare nel mio letto, dormire fino a tardi, annoiarmi a morte per i prossimi due mesi e sognare una fuga, ma solo sognarla. Sento di non avere la forza e le parole per spiegargli il vero motivo di questo andarmene fino a Palermo con la 125 Primavera di mio cugino Filippo. Mi toccherebbe ammettere che non c'è nulla di coraggioso in tutto questo e che dietro si nasconde l'ultimo tentativo di guarire da un male strano e senza nome che per mesi mi ha tenuto lontano da aerei, treni, navi, autobus e tutti quei posti dove ti manca l'ossigeno e da cui non puoi andartene quando ti pare. Dovrei chiarire che ho in mente di macinare così tanta strada solo perché spero che l'asfalto possa farmi da medicina, una medicina a dosaggio lento e di cui ancora non conosco gli effetti collaterali. Vorrei provare a dire a mio padre tutto questo, invece butto lì un angelo custode a labbra strette e scalcio con la forza di un mulo contro la pedivella. Il primo colpo non è buono.

Ricordati di aprire l'aria, mi aveva raccomandato Cesare in una delle sue prime lezioni. Incollata alle pareti del suo garage c'era una sola donna nuda, anche abbastanza pudica. Per il resto erano tutti ricambi di ogni genere e tipo, appesi e ordinati con la disciplina che rimedia spazio anche dove non ce n'è. Lì ho imparato tutto, da come si mette in moto a come si cambia il filo della frizione. Che strada hai in mente di fare? Lo sai che con questo modello non puoi nemmeno entrare in autostrada? Lo sapevo, sapevo che la mia strada aveva bisogno di tempo. Nell'astuccio che mi ha regalato prima di partire ho trovato una chiave a tubo, due candele, una brugola, fili di ricambio e un paio di guanti in lattice. Le sue ultime parole sono state: così non ti sporchi quelle manine da pianista.

La Vespa si accende al terzo colpo. Allora abbasso gli occhialini da aviatore che mi sono comprato, tocco la frizione con il guanto di cuoio, la stringo imprimendo meno forza possibile e insieme piego il polso finché la manopola non scatta sulla prima. Adagio lascio andare la leva e mi sento portare in avanti. Finalmente mi muovo.

Si sceglie come partire?
Mai fino in fondo. Con un immaginario martelletto rosso d'emergenza colpiamo il vetro che ci separa dal resto del mondo, ma non sappiamo che direzione prenderanno le crepe, quante saranno, se la lastra reggerà o finirà in frantumi. Vogliamo solo che entri un po' d'aria.

I primi giri di ruote li faccio in apnea. Poi, al primo incrocio, apro le orecchie e sento il mio respiro tenere il tempo del motore. Nemmeno duecento metri fatti, la sensazione di essere lontano a sufficienza per non poter tornare, la speranza che mio padre torni a letto ma non si addormenti più. Resti lì, nella prima luce che filtra dalle persiane, a riconoscere l'eco smorzata della mia marmitta.

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